Rientra nei poteri discrezionali dell’imprenditore la facoltà di disporre – in relazione alla necessità e all’ambito dell’impresa – il trasferimento del lavoratore subordinato da una unità produttiva ad un’altra ove sussistano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, salvo che per norma di contratto collettivo o individuale non venga stabilito, con carattere vincolante per entrambe le parti, che la prestazione lavorativa debba essere effettuata in un determinato luogo. La nozione di trasferimento del lavoratore, comporta il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, il che esclude il trasloco nell’ambito della medesima unità produttiva ed il trasferimento temporaneo del luogo di lavoro, altrimenti definito trasferta, ipotesi quest’ultima in cui il dipendente rimane comunque assegnato all’originario luogo di lavoro. Ai sensi dell’art. 2103, sesto comma del Codice Civile, il trasferimento risulta legittimo solo se assunto in presenza di adeguate “ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Con tali espressioni comunemente s’intende l’impossibilità oggettiva per il lavoratore di prestare attività lavorativa nella originaria sede, l’indispensabilità dello stesso nella sede di trasferimento in ragione delle competenze specifiche dello stesso, le esigenze oggettive di produzione, programmazione e quelle che riguardano la gestione economica del datore di lavoro inerenti la sede di destinazione. Le motivazioni poste a sostegno del trasferimento non devono comunque essere dettagliatamente indicate al lavoratore, tuttavia, se questi ne fa richiesta, il datore di lavoro è tenuto a comunicarle per iscritto e, ovviamente, anche nell’eventuale giudizio intrapreso dal dipendente. Peraltro, ove il datore di lavoro nella comunicazione del provvedimento di trasferimento indichi una pluralità di ragioni a giustificazione del provvedimento adottato, il sindacato operato dal giudice sulla legittimità dello stesso non richiede la valutazione unitaria di tali ragioni talché il mancato riscontro di una sola di esse non può invalidare il trasferimento. Con una recente sentenza la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è ritornata sull’argomento, dichiarando l’illegittimità del licenziamento comminato al lavoratore che si era rifiutato di trasferirsi (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 29054 del 5 dicembre 2017).
Il caso
La fattispecie esaminata dalla Corte riguardava il caso di un lavoratore che aveva proposto ricorso avverso il licenziamento comminatogli dal datore di lavoro, a seguito del rifiuto di questi di trasferirsi da una sede all’altra dell’azienda giustificato, a dire della stessa, dall’asserita soppressione del posto di lavoro presso la sede originaria. In primo grado, il Tribunale di Roma, aveva rigettato la domanda del lavoratore, mentre nel giudizio di secondo grado, proposto dal lavoratore, la Corte d’Appello capitolina dichiarava l’illegittimità del licenziamento, con tutte le conseguenze in ordine alla reintegrazione del dipendente ed all’indennizzo previsto dall’art. 18 L. 300/1970, nella precedente formulazione. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il datore di lavoro eccependo, tra l’altro, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2103 del Codice Civile e dell’art. 41 Costituzione, nonché la violazione degli artt. 1455 e 1460 del Codice Civile, per non avere la corte di merito riconosciuto il grave inadempimento del lavoratore che si era rifiutato di trasferirsi, non presentandosi presso la nuova sede di lavoro. Resisteva con controricorso il lavoratore chiedendo il rigetto del gravame.
Trasferimento illecito, rifiuto giustificato
Nella citata sentenza, la Suprema Corte premette come “il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 cod. civ. sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti (Cass. n. 11927 del 2013; Cass. n. 27844 del 2009; Cass. n. 26920 del 2008; Cass. n. 16907 del 2006; Cass. n. 4771 del 2004; Cass. n. 18209 del 2002; Cass. n. 1074 del 1999)”. E che, tuttavia, “in caso di trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 c.c., il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all’inadempimento datoriale ai sensi dell’art. 1460, comma 2, c.c., sicché lo stesso deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria (Cass. n. 3959 del 2016)”. Nel caso di specie, sottolinea la Corte di Cassazione, il giudice di merito “al cospetto di un inadempimento datoriale oggettivamente gravido di negative conseguenze quale è il trasferimento illegittimo di un lavoratore da Pomezia a Milano, ha ritenuto “del tutto proporzionata” la reazione dello … che ha comunque messo “a disposizione le sue energie lavorative presso la legittima sede di lavoro”. Alla luce di quanto sopra, il ricorso è stato rigettato con condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, delle spese del giudizio di cassazione. Ed invero, ai sensi dell’art. 1460 Cc, nei contratti con prestazioni corrispettive – come il contratto di lavoro, laddove il lavoratore a fronte della messa a disposizione delle proprie energie lavorative riceve una retribuzione da parte del datore di lavoro –, ciascuna delle parti contrattuali può rifiutare di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, tuttavia, non si può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. Pertanto, esclusa la presenza della male fede contrattuale, in caso di inadempimento dell’obbligazione perpetrato dal datore di lavoro relativo all’obbligo di ricevere la prestazione lavorativa presso la sede originaria di lavoro da parte del lavoratore, questi può legittimamente rifiutare il trasferimento. Peraltro, tale rifiuto, se giustificato, oltre a rendere illegittimo il licenziamento comminato, non autorizza neppure il datore di lavoro ad adibire il lavoratore a mansioni non equivalenti (Cfr.: Cass. n. 5780/2012). Per completezza espositiva si ricorda anche come “il trasferimento del lavoratore legittima il rifiuto del dipendente che ha diritto alla tutela di cui all’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, di assumere servizio nella sede diversa cui sia stato destinato ove il trasferimento sia idoneo a pregiudicare gli interessi di assistenza familiare del dipendente ed ove il datore di lavoro non provi che il trasferimento è stato disposto per effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
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